| Come è noto, parlare degli autori che si prediligono, oltre che essere inverosimilmente tedioso, non da alcuna soddisfazione. A dir la verità nemmeno parlare di quelli che detesto mi appaga più di tanto, però lo faccio perchè fa figo.
Il presagio dell’infinito scaturisce dalla percezione dei limiti: innanzi ad una lapide l’ossessione della propria finitezza raggiunge il culmine, suscitando il presentimento dell’illimitato. Foscolo, ne “I Sepolcri”, sostando idealmente presso tombe illustri, fa esperienza di quel sublime tanto caro all’età romantica: un loculo, dopotutto, non è che l’ennesimo orizzonte confinante con le vaghe distese dell’ulteriore. In tal senso si può immaginare che egli sieda affianco a Leopardi, all’ombra di quella siepe che, ostruendo la vista e segnando un confine netto, stimola il fervore dell’immaginazione, indicando il selciato d’una macabra trascendenza. Se quello di Leopardi è, però, un infinito metafisico, definito dall’assenza d’una reale definizione, in cui naufragare dolcemente, risucchiati dall’irresistibile gorgo della spersonificazione, lo stesso non si può dire di Foscolo. Il suo infinito, infatti, è inferiore, terreno, limitato da un invincibile interesse per l’immanenza: illudendosi di potersi congiungere all’eterno nell’eco della memoria, rimane confinato ad una dimensione estremamente concreta, e perciò ironicamente soggiogata al fluire del tempo. Le considerazioni politiche e sociali che permeano le sue opere attestano proprio questo, compromettendo inesorabilmente l’intensità delle sue estasi, che s’affievoliscono tanto nella speranza quanto nel rimpianto, troncate da quello “spirito guerrier” che “rugge”, indomito, nel suo animo. Non a caso dedica alcuni versi de “I sepolcri” all’azione vivificante del sole: sedotto dai suoi abbaglianti inganni, dimentica il Nulla eterno che la notte, sussurrando un fragoroso silenzio, gli rivela. Una lapide dischiude le porte dell’infinito, suggerendo la vertigine dell’annullamento: Foscolo, però, si limita a sbirciare oltre quest’estrema soglia, non osando varcarla, trattenuto dalla cieca smania dell’impegno civile. In questo modo si preclude l’esperienza ultima, preferendo continuare a battagliare strenuamente, stordito dalla mefitica presenza delle illusioni, piuttosto che affogare soffocato dalle placide acque del Nulla. Egli, pur volendo ridare prestigio ai sepolcri, finisce paradossalmente per imbrattarli, compromettendone la dignità. Meditando innanzi alle tombe dei grandi sostiene che essi, preservati dalla sepoltura dall’infuriare dei nembi, gridino un disperato messaggio di speranza, che sproni gli uomini coraggiosi ad agire. In realtà, non fa che ignorarne l’eloquente silenzio. Non solo: dimentica pure che la memoria stessa è destinata a disgregarsi e, nel tentativo di superare la sua finitezza, inciampa nelle catene che lo legano indissolubilmente alla dimensione terrena, che non riveste il ruolo di pretesto per approdare al sentore del sublime, bensì e di per sé stessa l’oggetto del suo poetare. Di ciò abbiamo ulteriore prova quando, sempre ne “I Sepolcri”, rapito dal tramontato clamore della guerra di Troia, non ode il frastuono dei sovrumani silenzi che aggredisce chi ha oltrepassato la vita stessa ( sarebbe più opportuno dire “di chi è trapassato anzitempo”, probabilmente). Foscolo non veste i nobili e sudici panni d’un relitto deambulante, bensì la modesta tunica d’un gregario del tempo con il debole per le estasi a metà, per qualche coito metafisico indelicatamente interrotto. Non ha, perciò, fallito esclusivamente nel soddisfare le proprie brame, ma pure nell’essere uno sconfitto dignitoso, un reprobo per bene. Tormentato dalla prospettiva dell’oblio, indica nella memoria uno spazio ove l’eterno può concretizzarsi, plasmando il marmo della Storia. Al poeta spetta dunque il compito d’impugnare lo scalpello e di scolpirne le inaudite fattezze. Egli non considera, però, che la vanità ammorba anche i ricordi più illustri, dal momento che nulla è eterno, fuorché il Nulla. E’ possibile confinare il significato delle lapidi alla consapevolezza della propria finitezza ed allo stupore, misto a sincero disgusto, che esse suscitano denunciando l’assurdità dell’esistenza. Foscolo, invece, ne degrada il valore, non riconoscendo nel sepolcro un ponte che conduce all’assolutezza del nulla, bensì considerandolo nella sua concretezza materiale, affibbiandogli superflui ruoli civili e sociali ( che esistono, certo, ma ne costituiscono una comprensione estremamente superficiale, ben poco sotterranea…). Egli desidera, tramite la sua poesia, eternare l’immanente, mentre l’eternità è possibile solo nell’indefinito, nell’imprecisione, in una fossa comune trascendente.
Edited by Apolide Metafisico - 23/5/2008, 16:06
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